di Lorenzo Cremonesi, inviato a Mosul per il Corriere della Sera
Il momento più delicato per gli italiani è stato lo scorso 17 ottobre. Per un paio di giorni si è temuto che il ritiro delle forze militari curde e il loro rimpiazzamento con unità scelte dell’esercito iracheno potesse trasformarsi in scontro armato. Oltretutto peggiorato dall’arrivo non previsto, almeno dai comandi italiani sul posto, di alcune formazioni delle «Hashed al Shaabi», le controverse milizie sciite che operano sotto la bandiera nazionale irachena, ma hanno legami diretti con l’Iran e sono spesso causa di gravi attriti con la popolazione sunnita. "In quelle ore la tensione è stata alta. Ma proprio la presenza del contingente militare italiano ha contribuito a tenere la situazione sotto controllo e poi evitato il peggio", raccontano i responsabili della Trevi, l’azienda italiana che dal 2016 lavora per consolidare la grande diga di Mosul.
Uno sbarramento lungo più di tre chilometri e mezzo e alto al centro ben oltre 100 metri, che garantisce il più grande bacino idrico del Paese, la cui centrale elettrica (al momento ferma) è ideata per fornire energia al nord. La vicenda rappresenta anche lo specchio della politica irachena dopo il referendum sull’indipendenza curda del 20 settembre, la cui conseguenza diretta è stata la crisi interna della regione autonoma curda, oggi più che mai ricaduta sotto il controllo della capitale. Con la perdita delle zone petrolifere di Kirkuk i curdi hanno visto fallire anche gran parte della loro sovranità economica, politica e militare. Al posto di blocco che immette all’area cintata e militarizzata della diga non è difficile osservare che le unità della "Divisione Dorata" irachena hanno preso il posto dei soldati curdi. Gli italiani controllano invece alcune casematte sulle alture prospicenti le baracche e i depositi della Trevi, oltreché gli accessi diretti ai due estremi dello sbarramento vero e proprio.